Chi è alle prese con una perdita di udito è più incline a quel processo di declino cognitivo alla base di patologie neurodegenerative come la demenza. Almeno questo è quanto emerge dall’evidenza epidemiologica, ossia dalle statistiche sulla frequenza di persone ipoacusiche che manifestano al contempo deficit cognitivi.
A conforto di queste osservazioni, si stima che l’ipoacusia rappresenti la causa di circa l’8% dei casi globali di demenza.
Tuttavia, la relazione di causa-effetto tra udito debole e demenza non è stata ancora chiarita.
Un’interessante ricerca pubblicata sulla rivista Frontiers ha fatto il punto della situazione sintetizzando le principali conclusioni relative alla presunta correlazione tra perdita di udito e demenza.
E riportando le ipotesi più accreditate sui possibili meccanismi d’azione che possono portare l’ipoacusia a configurarsi come un concreto fattore di rischio per la salute del cervello.
Ipoacusia e demenza: cosa sappiamo oggi?
Un team di ricercatori dell’Università di Baltimora, negli Stati Uniti, ha sintetizzato cosa dice la ricerca attuale sull’argomento.
Impatto sulla funzione uditiva periferica
Il primo studio preso in considerazione dai ricercatori è quello pubblicato dalla commissione Lancet, il quale ha riportato un rischio quasi doppio di demenza (1,9 volte) tra gli individui con problemi di udito di età pari o superiore a 55 anni rispetto a quelli con udito nella norma.
Una precedente meta-analisi, invece, ha rilevato che le probabilità di deterioramento cognitivo per le persone con ipoacusia correlata all’età erano 1,22 e le probabilità di demenza erano 1,28 volte superiori a quelle con udito normale.
I risultati spesso variano soprattutto a causa della differente metodologia impiegata, ma anche per la concezione riservata a capacità uditiva e deterioramento cognitivo. Alcuni studi, infatti, hanno incluso misurazioni continue dell’udito in termini di decibel mentre altri hanno classificato la capacità uditiva in categorie clinicamente riconosciute (perdita lieve o grave) o hanno considerato solo intervalli di frequenza specifici rispetto all’intervallo comunemente utilizzato clinicamente di 500–4000 Hz o 500–8000 Hz.
“Le diverse definizioni di ipoacusia rendono difficile sintetizzare l’attuale base di prove poiché il grado di difficoltà uditiva varia in base alla categorizzazione utilizzata e rappresenta diversi livelli di menomazione risultante e capacità funzionale”, precisano gli autori.
Ad ogni modo, un’associazione tra declino cognitivo, demenza e funzione uditiva periferica – ovvero la prima fase di trasduzione del suono che inizia con l’orecchio – risulta ben consolidata.
Più difficile, invece, stabilire con certezza l’impatto sulla funzione uditiva centrale, nonostante i vari sforzi accademici.
Le relazioni tra udito e cervello
Le attuali ipotesi vedono l’ipoacusia periferica come una potenziale causa di demenza e considerano la qualità di elaborazione delle informazioni sonore (funzione uditiva centrale) come un possibile indicatore del declino cognitivo.
Una raccolta più ampia di prove supporta l’idea che la perdita dell’udito possa contribuire al declino cognitivo in via diretta, attraverso quella che è comunemente nota come ipotesi della deprivazione sensoriale, o indirettamente attraverso l’ipotesi della degradazione dell’informazione.
Deprivazione sensoriale
Alcuni studi hanno evidenziato come una prolungata privazione sensoriale dovuta ad ipoacusia possa portare a diminuzioni del volume corticale del cervello insieme a quelli osservati con l’invecchiamento cognitivo fisiologico o la malattia neurodegenerativa.
Riduzione corticale che si traduce in una minore disponibilità della capacità corticale per tutte le attività cognitive. “Resta da chiarire come e se questi cambiamenti di volume cerebrale rappresentino cambiamenti patologici specifici per i tipi di demenza”, precisano gli autori.
Degradazione delle informazioni
Questa ipotesi, invece, è riconducibile al maggiore dispendio cognitivo richiesto per l’elaborazione delle informazioni da parte di chi è alle prese con ipoacusia: uno sforzo che va a tradursi in una minore disponibilità di energia cognitiva destinata ad altre attività come memoria, attenzione e funzione esecutiva.
Tali meccanismi compensatori sembrano più difficili da sostenere soprattutto per le persone anziane.
“Se siamo in grado di ripristinare l’input uditivo, potremmo quindi vedere almeno un certo ripristino delle prestazioni cognitive su compiti di livello superiore”, suggeriscono gli studiosi, alludendo al possibile ruolo degli apparecchi acustici.
L’ipotesi della causa comune tra ipoacusia e demenza
I sostenitori di questo filone di pensiero ritengono che perdita di udito e deterioramento cognitivo si manifestino – spesso – insieme perché causate dal medesimo meccanismo sottostante.
Ciò potrebbe essere dovuto ad invecchiamento o ad alterazioni vascolari, per esempio.
In questa prospettiva, si potrebbe ipotizzare un rischio genetico comune tra demenza e perdita dell’udito, tuttavia sono stati condotti ancora pochi studi sull’argomento.
Quali prospettive per le ricerche future?
Gli autori individuano alcune priorità che deve perseguire la ricerca, tra cui rilevare i meccanismi alla base della correlazione tra udito e demenza, attraverso anche un approccio multidisciplinare, standardizzare i parametri di misurazione e delineare strategie di prevenzione della demenza per le persone over 50.
In attesa di ulteriori sviluppi della ricerca, l’ipoacusia si configura come un concreto fattore di rischio per la salute del cervello, motivo per cui – così come raccomandano le istituzioni sanitarie – è molto importante prendersi cura del proprio udito ed eseguire periodicamente esami audiometrici per ridurre il rischio di sviluppare malattie neurodegenerative.